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venerdì 29 novembre 2019

delle case dei nostri antenati dell'Ottocento : casoni, semplici ad un piano o plurifamiliari a due piani

da venetoagricoltura.org


Cason di campagna e cesura, emblemi della povertà

Questo tipo di costruzione era comunissimo nelle campagne venete, soprattutto nelle zone della Bassa, ma non mancava nemmeno in collina, come sui colli Euganei e Berici e, sia pure in forme e utilizzi diversi, persino in aree pedemontane. La squallida povertà di questi manufatti, legati a persone appartenenti al più basso gradino della scala sociale, strideva con il lusso ostentato dalle sontuose “villeggiature” di ricche famiglie nobiliari. L’Ottocento segna una svolta importante nella lunghissima storia dei casolari di canna e paglia, e da questo momento si può dire che cominci la loro fine.
Il possidente Agostino Fapanni, che a Martellago (Venezia) nel 1810 soggiornava e stava agricolando, scrisse: tutte le fabbriche coloniche o son di muro coperte di tegole, copi, oppure di paglia; queste ultime chiamansi casóni, e sono abitate da’ pisnenti. La maggior parte delle masserie e delle grandi case rustiche sono coperte da copi, hanno però quasi tutte delle aggiunte coperte di paglia.
Qualche decennio dopo per l’agrimensore Domenico Rizzi i casoni, non hanno alcuno aspetto di casa, ma bensì di tane, di covili, che troppo sarebbe anche dirle spelonche, poiché le fiere in queste trovano ben migliore ricovero, perché al disagio della natura non vi si aggiunga quello dell’arte. Miseri casolari ove langue l’umanità, e dove persone d’ogni età, d’ogni sesso respirano un’aria mefitica e direi quasi pestilenziale.
Successivamente un autorevole personaggio padovano, il marchese Pietro Selvatico, manifestò una critica ancora più forte: a quei, non casolari di paglia ma canili, che qui diciamo casoni, perché in quelle tane non può serbarsi fiorente la salute del povero colono: sono esse un vero delitto di lesa umanità.
La sentenza definitiva di condanna fu espressa in occasione della relazione per l’inchiesta parlamentare sull’agricoltura del 1882, condotta da Stefano Jacini. Il padovano Emilio Morpurgo, commissario della Giunta dell’inchiesta, suscitando ‘scandalo’ per la franchezza con cui descrisse la realtà, riportò tale e quale la descrizione del cason giuntagli all’ingegnere capo del Municipio di Padova. In essa si legge che il casolare era composto da una gabbia di legname a quattro pareti piane, collocate sopra muriccioli a secco, rifoderati spesso da canne di sorgo turco, dentro e fuori spalmate di creta; superiormente,
un’intelaiatura in legno a forma di piramide, colle facce esterne intessute e coperte di strame o di paglia, un uscio che permetta l’entrata alla gente; dentro l’angusto ambiente, il focolare cui sovrasta una qualsiasi via d’uscita per il fumo; una o due finestrelle, difese da impannate od anco da vetrate; pavimento la nuda terra: ecco l’abitazione di alcuni nostri contadini.
Nella stessa relazione, che raccoglie moltissime informazioni di esperti e amministratori locali, queste povere case vennero indicate anche in altre maniere ma sempre riconducibili ad una condizione miserrima: canili, casolari, tuguri, catapecchie, abituri, tane da bestie, casotti, bugigattoli, porcili, topaie, casupole, covi di belve, pagliai, nidi di rettili immondi e così via.
È comunque dalla fine dell’Ottocento che questa campagna contro i casoni, che oggi definiremmo mediatica, sortì i suoi primi effetti pratici attraverso la loro sostituzione con edifici eretti e coperti interamente di cotto, operazione che continuò con sempre maggiore vigore fino alla totale scomparsa avvenuta nell’ultimo dopoguerra.
Questo singolare genere di casa con la copertura di materiali vegetali, molto pendente, abitato da braccianti e divenuto l’exemplum della povertà e della misera vita contadina, era edificato dentro un piccolo fondo con pochi campi, chiamato cesura. A volte il proprietario terriero, cui necessitava manodopera al fine di coltivare le sue terre, concedeva al lavoratore la possibilità di costruire un casolare su una propria area riconoscendogli una specie di diritto di superficie, vale a dire la proprietà del solo manufatto sopra terra. In questa maniera si teneva vincolato il bracciante alla sua impresa.
In origine il cason consisteva in un’ossatura di pali di legno di robinia o pioppo, conficcati nel terreno, e in pareti tessute con doppio graticciato di bacchette di salice o di altro legno misto a càne, càne vère e canèlo, e nel coperto anch’esso rivestito di canne. Le pareti potevano essere intonacate con tivàro (creta) o malta di calce sia dentro che fuori, stesa con uno scopino, non con il comune fratazzo. Successivamente l’intelaiatura lignea delle pareti esterne, anziché con canne, veniva tamponata con mattoni crudi (seccati all’aria). Nel corso del tempo l’evoluzione permise di sostituire le pareti a intelaiatura lignea con muri dapprima di mattoni crudi e poi con quelli cotti in fornace. Tuttavia la costruzione rimaneva priva quasi del tutto di fondamenta ed era forata da piccole finestre.
La caratteristica che più di ogni altra contraddistingue il cason era rappresentata dal tetto a cuspide molto spiovente, sostenuto da un ordito di sottili pali di robinia legati con le stròpe e coperto da erbe palustri, soprattutto canna di valle o anche paglia di frumento, segale, oppure altre piante di palude (trongiàro e pavèra) negli esemplari più poveri. Ruzzante (Angelo Beolco), famoso commediografo padovano, li chiamava pagiàri. Una dréssa (treccia) di paglia incrociata, realizzata sul colmo, dove convergevano le teste delle canne delle falde, completava e sigillava il lavoro di copertura; quest’opera tuttavia non assicurava
una buona impermeabilità per cui in seguito venne sostituita dalla copàra, sorta di ‘cappello’ con doppia fila di coppi posati su un letto di malta.
I modelli più recenti dei casolari pagliareschi costruiti in gran numero nel Padovano e nel Veneziano, erano sovente provvisti di una specie di piccolo portico utilizzato come disobbligo delle varie stanze, dove collocare la scala per raggiungere il vano sottotetto.
In assenza di vero portico e quindi di scale fisse, sul tetto si apriva il bocchiéro, tipo di abbaino che serviva da accesso al sottotetto, mediante una scala a mano esterna.
Il focolare, spesso l’unica parte della casa a essere interamente in cotto, sporgeva all’esterno della facciata principale e doveva essere disposto sottovento per minimizzare il rischio d’incendio del tetto provocato da faville incandescenti.
La sporgenza a volte era talmente pronunciata da formare una sorta di abside, chiamata cavarzeràna, di solito munita di due finestrelle laterali che davano all’esterno.
L’ingresso al piano terra avveniva tramite una porta di legno a un unico battente e allo stesso modo venivano chiuse le piccole finestre. Gli ambienti interni, con pavimento solitamente di batù (terra battuta), erano piuttosto bassi – 1,80-2,20 m – e sormontati da un dozzinale solaio che occupava lo spazio racchiuso dalla ripidissima copertura e nel quale trovavano posto le cose più svariate.
L’arcaico cason di tipo monolocale, cioè senza suddivisioni interne e con la scatola muraria di materiali vegetati, imponeva la promiscuità tra i componenti della famiglia ed eventualmente anche con gli animali domestici. Nel corso del tempo lo spazio interno fu diviso con pareti prima di legno e di canne intonacate, poi di mattoni come quelle d’ambito. Dapprima la cucina venne fornita di un tipo di camino centrale, non dotato di canna fumaria comunicante con l’esterno. Il fumo allora evacuava per mezzo di un semplice foro praticato sul tetto, dopo aver vagato in cucina e anche nel portico. La situazione migliorò, ma non si risolse completamente, allorché il camino fu spostato lungo una parete esterna e munito di cappa e canna fumaria alla francese. Tant’è che il polesano Antonio Selmi a fine Ottocento ebbe modo di scrivere: a mia esperienza non vidi giammai camino e focolare di contadino che non fosse una vera punizione agli occhi pel fumo che emana, giacché può dirsi che quello il quale prende la strada del condotto per andare a disperdersi nell’atmosfera, è la minima parte. L’interno risultava tenebroso e tutto affumicato come se ci fosse distesa una mano di catrame. Tuttavia il fenomeno del fumo che ‘affumicava’ le travi e le canne, mentre tornava scomodo ai casonanti (cameranti in provincia di Treviso), giovava alla conservazione del legname e all’impermeabilizzazione del tetto. Il fumo, appunto, formando sul legno quasi una ‘vernice’, contribuiva a preservarlo dalle influenze atmosferiche, e quindi a prolungarne la durata.
Lo spostamento del focolare dal centro della stanza al perimetro della stessa fu possibile soltanto quando si sostituirono le pareti d’ambito di materiale vegetale, eventualmente smaltato di fango, con muri di pietre e mattoni. Il camino a muro, appoggiato a pareti di legno era chiaramente troppo pericoloso, in quanto poteva innescare un incendio. Quando sia avvenuta la migrazione di questa fonte di calore è difficile scoprirlo. Come in tantissime altre circostanze il processo fu lento e con alterna fortuna. Ciò che invece si può affermare senza tema di smentita è che lo spostamento a parete determinò una larga diffusione del camino, anche nelle povere case.
In generale i casolari erano costruiti dagli stessi braccianti, usufruendo il più possibile di materiali facilmente reperibili in loco e offerti dalla natura: canne palustri, paglia di segale o di frumento, pali di robinia, stròpe di salice, terra argillosa, sabbia di campo, travi e tavole di olmo, salice, pioppo o castagno. Il costo maggiore consisteva nell’aiuto del casoniére per la posa del manto di erbe palustri sul tetto e nell’eventuale acquisto dei mattoni e dei coppi cotti in fornace. Se escludiamo il ricorso al fabbro ferraio, per la fornitura della ferramenta di chiusura delle porte e finestre, e al vetraio per quella del vetro, quando le finestre non erano tappate da tela o carta oleata (impannata, spiera), per il resto si trattava di autocostruzione.
Fatto salvo il tratto identificativo costituito dal tetto molto pendente di canna e paglia, come tutte le altre costruzioni anche i casoni rurali risentivano della variabilità dell’ambiente e delle tradizioni costruttive locali.

‘Moderne’ case dei braccianti

Il bracciante, proprio perché lavoratore per conto altrui, dipendente si direbbe oggi, non era imprenditore e perciò non necessitava di avere capitali per gestire l’azienda, viveva soltanto di lavoro, magari integrava il suo modesto salario dedicandosi alla coltivazione di pochi campi della sua cesura o di altri terreni avuti in terzerìa, ottenendo soprattutto dei prodotti destinati all’autoconsumo. Quindi non aveva bisogno di veri e propri annessi rustici, ma soltanto dell’abitazione per la sua famiglia.
Secondo l’effettivo lavoro manuale svolto e secondo il tipo di contratto più o meno precario poteva risiedere nell’alloggio messo a disposizione dal padrone all’interno del fondo in cui lavorava, come nel caso del boàro che spesso dormiva in una stanza attigua alla stalla per tenerla costantemente sotto controllo. Trovava altrimenti sistemazione in abitazione esterna, di solito non molto lontana dal luogo di lavoro.
In ogni caso si trattava di abituri perlopiù privi di adiacenze e di tipo accorpato in grado di ospitare una o più famiglie. Poteva trattarsi di una casupola pagliaresca (cason), oppure di una casa cupà, coperta di coppi.
Le dimore per braccianti si espansero soprattutto a seguito del passaggio dalla grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica ai nuovi ricchi ebrei e borghesi, trasferimento iniziato alla fine del Settecento soprattutto grazie alle soppressioni di enti religiosi e alle conseguenti aste dei loro beni. La confisca e la successiva vendita all’incanto del cospicuo patrimonio immobiliare ecclesiastico (manomorta) furono attuate dapprima dalla morente Repubblica veneta e poi da Napoleone e dal neonato Regno d’Italia. Nella successiva riorganizzazione della gestione fondiaria dei loro grandi possedimenti, in molteplici casi i nuovi padroni tramutarono i contratti di affitto in conduzione diretta con salariati o in affitto a conduttore, che pure ricorreva all’aiuto di mano d’opera esterna all’azienda, come i salariati.
Dall’alba dell’Ottocento, e più intensamente nel secolo successivo, per i braccianti e in genere per i pitòchi, ossia i lavoratori di umili origini, si cominciarono a costruire dei tipi alternativi al casolare pagliaresco, in aree situate nei pressi dei centri abitati, lungo le strade, nelle proprietà demaniali e soprattutto ai margini dei grandi possedimenti nobiliari, ecclesiastici o borghesi condotti in economia diretta o in affitto, in cui ci si avvaleva di manodopera esterna.
Queste case svolgevano le stesse funzioni dei casoni, sennonché erano erette in forma assai diversa e, se così si può dire, più confortevole.
Anch’esse erano delle semplici abitazioni prive di annessi rustici veri e propri, non essendo dotate di un’estesa superficie da coltivare. Alcuni di questi insediamenti bracciantili, nondimeno, si rivelavano dotati di una cesura, piccolo terreno coltivato a cereali, a orto o a vigneto per l’autoconsumo, soprattutto granoturco che il padrone concedeva alla parte. Il bracciante, non possedendo quasi mai animali di grossa taglia da allevare, non abbisognava di una vera e propria stalla né quindi di far scorta di foraggi nella sa (fienile) e pajàro (pagliaio). Se aveva piccole pertinenze addossate all’alloggio o più spesso isolate, esse apparivano di tipo precario, realizzate in legno, canne e stròpe, usate come pollaio, conigliera e legnaia.
Le case bracciantili erano abitazioni assai contenute nelle dimensioni, sovente a un solo piano, basse, con la copertura a due acque, eppure avevano i muri di mattoni, anche se a volte crudi e di spessore di sa piéra (una testa di mattone). Il manto di copertura formato di coppi costituiva una sorta di privilegio rispetto ai casonànti che occupavano abituri in canna palustre, non solo perché assicurava maggiore impermeabilità all’acqua piovana e imponeva minori interventi manutentori, bensì perché comportava meno rischi d’incendio, la vera ossessione degli abitanti dei casolari pagliareschi.
Inoltre non era nemmeno necessario il muro tagliafuoco, peraltro molto diffuso nei rustici emiliani e lombardi, in quanto non vi erano gli annessi facilmente infiammabili con all’interno paglia e fieno.
Tuttavia agli effetti igienici, queste costruzioni non si mostravano molto diverse dai casolari pagliareschi, a causa della saliente umidità dei muri. Tant’è vero che si arrivò a dichiarare preferibili i casoni di canne, aperti a tutte le intemperie, ove l’aria sorte senza incontrare notevoli difficoltà, rispetto alle umide e basse casupole costruite in mattoni.
Quando queste ‘moderne’ case bracciantili si articolavano in due piani, la scala si componeva di due rampe con un pàto di mezzo, alla maniera delle residenze padronali e urbane, ancorché di legno e dozzinali. La casa cupà e solerà costituiva un altro privilegio per chi la abitava. Le stanze da letto di norma erano allogate al piano superiore sfuggendo alla morsa dell’umidità che trasudava dai muri e dal pavimento del piano terreno. Inoltre, in caso di alluvione, gli abitanti potevano rifugiarsi non già sui tetti ma proprio al piano superiore. A volte questi edifici plurifamiliari si sviluppavano orizzontalmente in maniera seriale, alla stessa stregua delle attuali case a schiera.
Sulla facciata principale, allungata e rivolta sempre a mezzogiorno, come in tutti gli altri edifici abitativi, oltre ad una serie di finestre, si aprivano tante porte e spuntavano tanti camini quante le famiglie, i fóghi di antica memoria.
Il prospetto, improntato alla massima semplicità, era movimentato soltanto dai camini a sagomatura esterna, ognuno dei quali corrispondeva alla cucina di un alloggio. Le cornici si rivelavano poverissime e poco aggettanti se non addirittura assenti con i soli coppi sporgenti.
I fabbricati, declinati in maniera lineare e privi di conclusione del tetto a due falde, facilitavano la realizzazione di ampliamenti ed estensioni (sesónte) che, viceversa, nei casoni risultavano complicati, dato il tetto a quattro spioventi.
Negli edifici plurifamiliari a due piani, i locali al piano primo corrispondevano a quelli del piano terreno, per cui la divisione tra gli alloggi avveniva da cielo a terra, come nelle abitazioni urbane a schiera. In ogni caso l’altezza dei vani era ben minore di quella delle ville. Il numero ridotto dei gradini necessari per raggiungere il primo piano, lasciava maggiore spazio usufruibile.

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