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Cason di campagna e cesura, emblemi della povertà
Questo
tipo di costruzione era comunissimo nelle campagne venete, soprattutto nelle
zone della Bassa, ma non mancava nemmeno in collina, come sui colli Euganei e
Berici e, sia pure in forme e utilizzi diversi, persino in aree pedemontane. La
squallida povertà di questi manufatti, legati a persone appartenenti al più basso
gradino della scala sociale, strideva con il lusso ostentato dalle sontuose “villeggiature”
di ricche famiglie nobiliari. L’Ottocento segna una svolta importante nella
lunghissima storia dei casolari di canna e paglia, e da questo momento si può
dire che cominci la loro fine.
Il
possidente Agostino Fapanni, che a Martellago (Venezia) nel 1810 soggiornava e
stava agricolando, scrisse: tutte
le fabbriche coloniche o son di muro coperte di tegole, copi, oppure di paglia;
queste ultime chiamansi casóni, e sono abitate da’ pisnenti. La maggior parte
delle masserie e delle grandi case rustiche sono coperte da copi, hanno però
quasi tutte delle aggiunte coperte di paglia.
Qualche
decennio dopo per l’agrimensore Domenico Rizzi i casoni, non hanno alcuno aspetto di casa, ma bensì di
tane, di covili, che troppo sarebbe anche dirle spelonche, poiché le fiere in queste
trovano ben migliore ricovero, perché al disagio della natura non vi si
aggiunga quello dell’arte. Miseri casolari ove langue l’umanità,
e dove persone d’ogni età, d’ogni sesso respirano un’aria mefitica e direi
quasi pestilenziale.
Successivamente
un autorevole personaggio padovano, il marchese Pietro Selvatico, manifestò una
critica ancora più forte: a quei,
non casolari di paglia ma canili, che qui diciamo casoni, perché in quelle tane
non può serbarsi fiorente la salute del povero colono: sono esse un vero
delitto di lesa umanità.
La
sentenza definitiva di condanna fu espressa in occasione della relazione per l’inchiesta
parlamentare sull’agricoltura del 1882, condotta da Stefano Jacini. Il padovano
Emilio Morpurgo, commissario della Giunta dell’inchiesta, suscitando ‘scandalo’
per la franchezza con cui descrisse la realtà, riportò tale e quale la descrizione
del cason giuntagli all’ingegnere capo del Municipio di Padova. In
essa si legge che il casolare era composto da una
gabbia di legname a quattro pareti piane, collocate sopra muriccioli a secco,
rifoderati spesso da canne di sorgo turco, dentro e fuori spalmate di creta;
superiormente,
un’intelaiatura in legno a forma di piramide, colle
facce esterne intessute e coperte di strame o di paglia, un uscio che permetta l’entrata
alla gente; dentro l’angusto ambiente, il focolare cui sovrasta una qualsiasi
via d’uscita per il fumo; una o due finestrelle, difese da impannate od anco da
vetrate; pavimento la nuda terra: ecco l’abitazione di alcuni nostri contadini.
Nella
stessa relazione, che raccoglie moltissime informazioni di esperti e
amministratori locali, queste povere case vennero indicate anche in altre
maniere ma sempre riconducibili ad una condizione miserrima: canili, casolari,
tuguri, catapecchie, abituri, tane da bestie, casotti, bugigattoli, porcili,
topaie, casupole, covi di belve, pagliai, nidi di rettili immondi e così via.
È
comunque dalla fine dell’Ottocento che questa campagna contro i casoni, che oggi definiremmo
mediatica, sortì i suoi primi effetti pratici attraverso la loro sostituzione
con edifici eretti e coperti interamente di cotto, operazione che continuò con sempre
maggiore vigore fino alla totale scomparsa avvenuta nell’ultimo dopoguerra.
Questo
singolare genere di casa con la copertura di materiali vegetali, molto
pendente, abitato da braccianti e divenuto l’exemplum della
povertà e della misera vita contadina, era edificato dentro un piccolo fondo
con pochi campi, chiamato cesura. A volte il proprietario terriero, cui necessitava
manodopera al fine di coltivare le sue terre, concedeva al lavoratore la possibilità
di costruire un casolare su una propria area riconoscendogli una specie di
diritto di superficie, vale a dire la proprietà del solo manufatto sopra terra.
In questa maniera si teneva vincolato il bracciante alla sua impresa.
In
origine il cason consisteva in
un’ossatura di pali di legno di robinia o pioppo, conficcati nel terreno, e in
pareti tessute con doppio graticciato di bacchette di salice o di altro legno
misto a càne, càne vère e canèlo, e nel coperto anch’esso rivestito di canne. Le pareti
potevano essere intonacate con tivàro
(creta) o malta di calce sia dentro che
fuori, stesa con uno scopino, non con il comune fratazzo. Successivamente l’intelaiatura
lignea delle pareti esterne, anziché con canne, veniva tamponata con mattoni crudi
(seccati all’aria). Nel corso del tempo l’evoluzione permise di sostituire le
pareti a intelaiatura lignea con muri dapprima di mattoni crudi e poi con
quelli cotti in fornace. Tuttavia la costruzione rimaneva priva quasi del tutto
di fondamenta ed era forata da piccole finestre.
La
caratteristica che più di ogni altra contraddistingue il cason era
rappresentata dal tetto a cuspide molto spiovente, sostenuto da un ordito di
sottili pali di robinia legati con le stròpe
e coperto da erbe palustri, soprattutto
canna di valle o anche paglia di frumento, segale, oppure altre piante di
palude (trongiàro e pavèra) negli esemplari più poveri. Ruzzante (Angelo Beolco),
famoso commediografo padovano, li chiamava pagiàri. Una dréssa
(treccia) di paglia incrociata,
realizzata sul colmo, dove convergevano
le teste delle canne delle falde, completava e sigillava il lavoro di
copertura; quest’opera tuttavia non assicurava
una
buona impermeabilità per cui in seguito venne sostituita dalla copàra,
sorta di ‘cappello’ con doppia fila di coppi posati su un letto di malta.
I
modelli più recenti dei casolari pagliareschi costruiti in gran numero nel
Padovano e nel Veneziano, erano sovente provvisti di una specie di piccolo
portico utilizzato come disobbligo delle varie stanze, dove collocare la scala per
raggiungere il vano sottotetto.
In
assenza di vero portico e quindi di scale fisse, sul tetto si apriva il bocchiéro,
tipo di abbaino che serviva da accesso al sottotetto, mediante una scala a mano
esterna.
Il
focolare, spesso l’unica parte della casa a essere interamente in cotto,
sporgeva all’esterno della facciata principale e doveva essere disposto sottovento
per minimizzare il rischio d’incendio del tetto provocato da faville
incandescenti.
La
sporgenza a volte era talmente pronunciata da formare una sorta di abside, chiamata
cavarzeràna, di solito munita di due finestrelle
laterali che davano all’esterno.
L’ingresso
al piano terra avveniva tramite una porta di legno a un unico battente e allo
stesso modo venivano chiuse le piccole finestre. Gli ambienti interni, con
pavimento solitamente di batù
(terra battuta), erano piuttosto bassi –
1,80-2,20 m – e sormontati da un dozzinale solaio che occupava lo spazio
racchiuso dalla ripidissima copertura e nel quale trovavano posto le cose più
svariate.
L’arcaico
cason di tipo
monolocale, cioè senza suddivisioni interne e con la scatola muraria di materiali
vegetati, imponeva la promiscuità tra i componenti della famiglia ed
eventualmente anche con gli animali domestici. Nel corso del tempo lo spazio
interno fu diviso con pareti prima di legno e di canne intonacate, poi di mattoni
come quelle d’ambito. Dapprima la cucina venne fornita di un tipo di camino centrale,
non dotato di canna fumaria comunicante con l’esterno. Il fumo allora evacuava per
mezzo di un semplice foro praticato sul tetto, dopo aver vagato in cucina e
anche nel portico.
La situazione migliorò, ma non si risolse completamente, allorché il camino fu spostato
lungo una parete esterna e munito di cappa e canna fumaria alla francese. Tant’è
che il polesano Antonio Selmi a fine Ottocento ebbe modo di scrivere: a mia esperienza non vidi giammai camino e focolare
di contadino che non fosse una vera punizione agli occhi pel fumo che emana,
giacché può dirsi che quello il quale prende la strada del condotto per andare a
disperdersi nell’atmosfera, è la minima parte.
L’interno risultava tenebroso e tutto affumicato come se ci fosse distesa una mano di catrame. Tuttavia il fenomeno del fumo che ‘affumicava’ le travi e
le canne, mentre tornava scomodo ai casonanti
(cameranti
in provincia di Treviso), giovava alla
conservazione del legname e all’impermeabilizzazione del tetto. Il fumo,
appunto, formando sul legno quasi una ‘vernice’, contribuiva a preservarlo
dalle influenze atmosferiche, e quindi a prolungarne la durata.
Lo
spostamento del focolare dal centro della stanza al perimetro della stessa fu
possibile soltanto quando si sostituirono le pareti d’ambito di materiale
vegetale, eventualmente smaltato di fango, con muri di pietre e mattoni. Il
camino a muro, appoggiato a pareti di legno era chiaramente troppo pericoloso,
in quanto poteva innescare un incendio. Quando sia avvenuta la
migrazione di questa fonte di calore è difficile scoprirlo. Come in tantissime
altre circostanze il processo fu lento e con alterna fortuna. Ciò che invece si
può affermare senza tema di smentita è che lo spostamento a parete determinò
una larga diffusione del camino, anche nelle povere case.
In
generale i casolari erano costruiti dagli stessi braccianti, usufruendo il più
possibile di materiali facilmente reperibili in
loco e offerti dalla natura: canne palustri, paglia di segale o di frumento,
pali di robinia, stròpe di salice, terra argillosa, sabbia di campo, travi e tavole di
olmo, salice, pioppo o castagno. Il costo maggiore consisteva nell’aiuto del casoniére per la
posa del manto di erbe palustri sul tetto e nell’eventuale acquisto dei mattoni
e dei coppi cotti in fornace. Se escludiamo il ricorso al fabbro ferraio, per
la fornitura della ferramenta di chiusura delle porte e finestre, e al vetraio
per quella del vetro, quando le finestre non erano tappate da tela o carta
oleata (impannata, spiera), per il resto si trattava di autocostruzione.
Fatto
salvo il tratto identificativo costituito dal tetto molto pendente di canna e
paglia, come tutte le altre costruzioni anche i casoni rurali
risentivano della variabilità dell’ambiente e delle tradizioni costruttive
locali.
‘Moderne’ case dei braccianti
Il
bracciante, proprio perché lavoratore per conto altrui, dipendente si direbbe
oggi, non era imprenditore e perciò non necessitava di avere capitali per
gestire l’azienda, viveva soltanto di lavoro, magari integrava il suo modesto salario
dedicandosi alla coltivazione di pochi campi della sua cesura o
di altri terreni avuti in terzerìa, ottenendo soprattutto dei prodotti destinati all’autoconsumo.
Quindi non aveva bisogno di veri e propri annessi rustici, ma soltanto dell’abitazione
per la sua famiglia.
Secondo
l’effettivo lavoro manuale svolto e secondo il tipo di contratto più o meno
precario poteva risiedere nell’alloggio messo a disposizione dal padrone all’interno
del fondo in cui lavorava, come nel caso del boàro
che spesso dormiva in una stanza
attigua alla stalla per tenerla costantemente sotto controllo. Trovava altrimenti
sistemazione in abitazione esterna, di solito non molto lontana dal luogo di
lavoro.
In
ogni caso si trattava di abituri perlopiù privi di adiacenze e di tipo
accorpato in grado di ospitare una o più famiglie. Poteva trattarsi di una casupola
pagliaresca (cason), oppure di una casa cupà, coperta di coppi.
Le
dimore per braccianti si espansero soprattutto a seguito del passaggio dalla
grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica ai nuovi ricchi ebrei e borghesi,
trasferimento iniziato alla fine del Settecento soprattutto grazie alle soppressioni
di enti religiosi e alle conseguenti aste dei loro beni. La confisca e la
successiva vendita all’incanto del cospicuo patrimonio immobiliare
ecclesiastico (manomorta) furono attuate dapprima dalla morente Repubblica veneta
e poi da Napoleone e dal neonato Regno
d’Italia. Nella successiva riorganizzazione della gestione fondiaria dei loro
grandi possedimenti, in molteplici casi i nuovi padroni tramutarono i contratti
di affitto in conduzione diretta con salariati o in affitto a conduttore, che
pure ricorreva all’aiuto di mano d’opera esterna all’azienda, come i salariati.
Dall’alba
dell’Ottocento, e più intensamente nel secolo successivo, per i braccianti e in
genere per i pitòchi, ossia i lavoratori di umili origini, si cominciarono a
costruire dei tipi alternativi al casolare pagliaresco, in aree situate nei
pressi dei centri abitati, lungo le strade, nelle proprietà demaniali e
soprattutto ai margini dei grandi possedimenti nobiliari, ecclesiastici o
borghesi condotti in economia diretta o in affitto, in cui ci si avvaleva di
manodopera esterna.
Queste
case svolgevano le stesse funzioni dei casoni, sennonché erano erette in forma assai diversa e, se così
si può dire, più confortevole.
Anch’esse
erano delle semplici abitazioni prive di annessi rustici veri e propri, non
essendo dotate di un’estesa superficie da coltivare. Alcuni di questi
insediamenti bracciantili, nondimeno, si rivelavano dotati di una cesura,
piccolo terreno coltivato a cereali, a orto o a vigneto per l’autoconsumo,
soprattutto granoturco che il padrone concedeva alla parte.
Il bracciante, non possedendo quasi mai animali di grossa taglia da allevare,
non abbisognava di una vera e propria stalla né quindi di far scorta di foraggi
nella tésa (fienile) e pajàro (pagliaio).
Se aveva piccole pertinenze addossate all’alloggio o più spesso isolate, esse
apparivano di tipo precario, realizzate in legno, canne e stròpe,
usate come pollaio, conigliera e legnaia.
Le
case bracciantili erano abitazioni assai contenute nelle dimensioni, sovente a
un solo piano, basse, con la copertura a due acque, eppure avevano i muri di
mattoni, anche se a volte crudi e di spessore di mèsa piéra (una
testa di mattone). Il manto di copertura formato di coppi costituiva una sorta
di privilegio rispetto ai casonànti che
occupavano abituri in canna palustre, non solo perché assicurava maggiore impermeabilità
all’acqua piovana e imponeva minori interventi manutentori, bensì perché comportava
meno rischi d’incendio, la vera ossessione degli abitanti dei casolari
pagliareschi.
Inoltre
non era nemmeno necessario il muro tagliafuoco, peraltro molto diffuso nei rustici
emiliani e lombardi, in quanto non vi erano gli annessi facilmente infiammabili
con all’interno paglia e fieno.
Tuttavia
agli effetti igienici, queste costruzioni non si mostravano molto diverse dai
casolari pagliareschi, a causa della saliente umidità dei muri. Tant’è vero che
si arrivò a dichiarare preferibili i casoni
di canne, aperti a tutte le intemperie,
ove l’aria sorte senza
incontrare notevoli difficoltà,
rispetto alle umide e basse casupole costruite in mattoni.
Quando
queste ‘moderne’ case bracciantili si articolavano in due piani, la scala si
componeva di due rampe con un pàto
di mezzo, alla maniera delle residenze
padronali e urbane, ancorché di legno e dozzinali. La casa cupà e
solerà costituiva un altro privilegio per chi la abitava. Le stanze
da letto di norma erano allogate al piano superiore sfuggendo alla morsa dell’umidità
che trasudava dai muri e dal pavimento del piano terreno. Inoltre, in caso di alluvione,
gli abitanti potevano rifugiarsi non già sui tetti ma proprio al piano
superiore. A volte questi edifici plurifamiliari si sviluppavano orizzontalmente
in maniera seriale, alla stessa stregua delle attuali case a schiera.
Sulla
facciata principale, allungata e rivolta sempre a mezzogiorno, come in tutti
gli altri edifici abitativi, oltre ad una serie di finestre, si aprivano tante
porte e spuntavano tanti camini quante le famiglie, i fóghi di
antica memoria.
Il
prospetto, improntato alla massima semplicità, era movimentato soltanto dai
camini a sagomatura esterna, ognuno dei quali corrispondeva alla cucina di un
alloggio. Le cornici si rivelavano poverissime e poco aggettanti se non
addirittura assenti con i soli coppi sporgenti.
I
fabbricati, declinati in maniera lineare e privi di conclusione del tetto a due
falde, facilitavano la realizzazione di ampliamenti ed estensioni (sesónte)
che, viceversa, nei casoni risultavano complicati, dato il tetto a quattro spioventi.
Negli
edifici plurifamiliari a due piani, i locali al piano primo corrispondevano a
quelli del piano terreno, per cui la divisione tra
gli alloggi avveniva da cielo a terra, come nelle abitazioni urbane a schiera.
In ogni caso l’altezza dei vani era ben minore di quella delle ville. Il numero
ridotto dei gradini necessari per raggiungere il primo piano, lasciava maggiore
spazio usufruibile.